Prima del terzo decennio del 1900 l’alimentazione dei brugheresi era semplice, anzi povera, come può essere l’alimentazione contadina. Era preparata con i prodotti della terra, dell’orto, della stalla, del pollaio, ma sempre con molta parsimonia.
Nelle grandi cucine stavano allineati alle pareti sacchi di frumento, di farina gialla, di segale. Il pane quotidiano era quindi assicurato: belle forme rotonde, di grandi proporzioni, da affettare. Andava di moda “al pumiaa”, una zuppa di verdure e pane di segale finemente affettato. Ad ognuno la sua scodellona per riempire lo stomaco.
Per condimento si usava il lardo del proprio maiale o il burro della propria mucca. Cibo d’obbligo era la polenta cucinata con molte varianti, bella soda, o polentina molle, “la pult”, dove si nascondeva un po' di burro di propria produzione.
La “pulenta rustìda” era fritta con le cipolle; “la pulenta barbutàda” era cucinata con gli avanzi della sera prima, affettati nel latte e con aggiunta di zucchero. La polenta serviva anche per essere insaporita da una toccatina al “sarac” (aringa).
Buona, se accompagnata da un abbondante intingolo dove era stato cotto un salamino del proprio maiale che poteva servire ad un’intera famiglia. E il pane? Il cosiddetto “pane bianco” è apparso, sia pure contingentato, sulle tavole coloniche brugheresi negli anni 1917-1918 quando era sindaco Giovanni Santini.
Il pane sino allora usato, sempre con una certa parsimonia, era “il pane giallo” preparato con farina di granoturco e segale. La “mica” (forma particolare di pane bianco simile a quello emiliano) era riservata, per soli pochi giorni, all’alimentazione delle partorienti e delle gestanti. Era una gran festa quando si uccideva il maiale; allora si preparava “la casoeula” con le buone costine ben condite e le verze abbondanti in quella stagione.
Il maiale offriva una riserva per tutto l’anno. I bei salami, appesi al soffitto a maturare, erano riservati per le grandi occasioni.
Di propria produzione, non mancavano mai i formaggini preparati con il latte cagliato, conservati nella “muschiroeula” per difenderli dall’assalto delle mosche nella calda stagione.
Il pollaio forniva uova quotidiane, il più delle volte uno serviva per due persone. Bisogna tenere presente che i contadini contavano sull’introito che le uova fornivano. Riguardo ai polli, ben di rado venivano cucinati. Occasione propizia poteva essere una malattia o una maternità.
In giorno di festa si cucinava il risotto con lo zafferano, ma non tutti potevano permettersi questo lusso. Capitava che i più fortunati dimenticassero qualche chicco di riso dorato sul risvolto della giacca per dimostrare che a loro stavolta era andata bene.
Anche l’olio era di propria produzione, ottenuto da semi di ravizzone, una pianta da foraggio dai fiori vistosamente gialli, di bell’effetto nel verde della campagna.
Quello che non mancava mai in tavola era il vino della propria vigna. Era quello a dare vigore , anche se poteva causare la sbornia.
E i dolci? Naturalmente erano preparati in casa. La “carsensa” era fatta di farina di segale con l’aggiunta di frutta: mele e uva secca. La “brusàda” invece era preparata con farina gialla e fichi.
Un dolce a buon prezzo era la neve da raccogliere nella scodella e da condire con vino o zucchero. D’autunno si gustavano le castagne, in compagnia, con un buon bicchiere di vino.