La vita patriarcale

Sino ai primi lustri del XX secolo l’economia agricola rappresentava l’unica risorsa di Brugherio.
Le grandi proprietà terriere delle case patrizie, dotate di cascine costituenti veri e propri aggregati di qualche centinaio di abitanti, erano coltivate da grosse famiglie organizzate in maniera patriarcale sotto lo scettro del “regiù” o della “regiura” dai quali erano amministrate in maniera dittatoriale.

Lo scettro del “regiù” o della “regiura” teneva stretti intorno al focolare ed all’immenso tavolo della cucina, dalle polente e dalle minestre fumanti, i nuclei familiari di diverse generazioni.

Al decesso del “regiù” lo scettro passava per diritto tradizionale alla “regiura” e, alla scomparsa di questa, al capo della prima generazione più anziano di età.

Il reggitore di questa tribù curava i rapporti con la proprietà terriera con decoro, ma con deferente subordinazione tenendo il cappello sospeso con una mano dietro la nuca.

Custodiva il “borson” e i libretti della Cassa di Risparmio, intangibili una volta custoditi.
Comprava, vendeva, operava dispoticamente, senza consultare nessuno, a suo giudizio e arbitrio, secondo le esigenze dell’azienda.

Il suo operato era insindacabile ed era accettato col più profondo timore riverenziale.

Era lui che sovrintendeva alla preparazione di impendizi dovuti al padrone e che talvolta infilava pallini di piombo nei pollastri perché raggiungessero il peso stabilito.

Gli impendizi erano corresponsioni in natura che i conduttori di fondi a mezzadria dovevano dare al proprietario in occasione delle grandi festività (Natale, Pasqua) per arricchire la mensa padronale.

Le abitazioni

Un vasto locale al piano terreno, con antistante portico e una o due stanze al primo piano, costituivano le abitazioni rurali tipiche.

L’alloggio, durante l’inverno, era integrato dalla stalla dove, nella tregua dei lavori, le famiglie si raccoglievano per ripararsi dal freddo.

Qui, alla luce del lum o della lucerna, le generazioni si tramandavano le leggende e le favole piene di ombre e di paure, interrompendole verso sera per la recitazione collettiva del Santo Rosario, tradizione gelosamente conservata dai tempi della peste del 1578.

Qui si creava quell’atmosfera di deferenza e di subordinazione nella gerarchia familiare e sociale.

Le cucine, al sopraggiungere della primavera, venivano sgombrate del tavolo, delle credenze e delle panche per diventare il regno dei bigatt (bachi) altrimenti detti cavalee.

Sulle incastellature di legno, ancorate al soffitto ed al pavimento e sovrapposte a distanza di cm 50/60 l’una dall’altra sino al soffitto, venivano collocate le tavole di stuoie su cui erano allevati i bachi.

Rimanevano liberi intorno alle strutture stretti corridoi, lungo i quali le donne trafelate accudivano, instancabili, al rifornimento della foglia di gelso, alla pulizia dei letti ed al governo del camino preposto a regolare la temperatura dell’ambiente.

Le camere da letto, amplissime, erano suddivise in tanti scomparti da lenzuola sorrette da intelaiature di legno o da fili di ferro, in modo da creare spazi per sessi e per nuclei familiari.

Non era però raro che alcuni componenti della famiglia dormissero nella stalla o sui fienili per insufficienza di alloggi.

I letti erano piazze d’arme, sovrappopolate, a doppio ordine, piedi contro piedi.

I matrimoni

Nelle famiglie patriarcali, in tempi lontani, i matrimoni avevano luogo rigorosamente in ordine di età.
“Tuca al Giuvanin … tuca al Pepin … tuca al Lisander …” era la frase usata per stabilire l’ordine di precedenza qualora non fosse intervenuta qualche rinuncia.

Non era il sentimento, non era l’amore a preparare il fausto evento: la scelta della sposa era di esclusiva competenza del regiù.

“La Teresina, l’è al partì che va ben per ti. L’è una brava tusa, lavuradura e sana. La va in campagna, la fa el pan, l’è pratica de vac e de bigatt … La va a penel per la nostra cà”.

Dopo qualche contatto tra i genitori e il candidato al matrimonio incombeva solo il compito “de andà a giustà la spusa” che talvolta il promesso sposo non aveva mai conosciuto.

Fattasi lentamente strada tra i giovani l’aspirazione di scegliersi liberamente la propria compagna della vita, ecco apparire, dalla seconda metà del secolo XIX ai primi decenni del secolo XX, la figura diplomatica del “marussee”, vale a dire del mediatore.

A lui faceva capo il giovane che, derogando alle tradizioni, intendeva formulare proposte matrimoniali direttamente alla compaesana, che, a suo giudizio, rispondeva al suo caso, col formulario stereotipato: Vorrei parlare alla Mariett.

Il marussee, con tutte le cautele della sua arte, avvicinava la ragazza, la quale, generalmente, assentiva di buon grado, subordinatamente alle determinazioni dei genitori. Avuta l’adesione di questi, l’ambasciatore recava felice la notizia allo sposo fissando la festa “per giustà la spusa” (fidanzamento).

Il fidanzamento avveniva sempre in giorno festivo.
Mediatore e sposo trascorrevano tutto il pomeriggio all’osteria, bevendo abbondantemente alla ricerca della forza per superare la prova della cerimonia.

Raggiunta alla sera la casa della sposa, dove tutta la famiglia era raccolta, il marussee celebrava il rito con queste parole: “Te se cuntenta de spusà quest chi ? – E ti te se cuntent de spusà questa chi?”.
E avute risposte affermative, soggiungeva: Ben … deves la man.

Rivolgendosi infine ai presenti, concludeva: La spusa l’è bela e giustada.

La fine della prima guerra mondiale segna la scomparsa del mediatore. I reduci dai campi di battaglia operano la loro scelta attraverso la collaborazione di un amico o di un parente, il quale dopo il felice coronamento dell’iniziativa, riceverà dagli sposi a titolo di guiderdone una lussuosa camicia di seta.

Questo intermediario era chiamato “il cinq e mes”.

I piatti dei nostri avi

Prima del terzo decennio del 1900 l’alimentazione dei brugheresi era semplice, anzi povera, come può essere l’alimentazione contadina. Era preparata con i prodotti della terra, dell’orto, della stalla, del pollaio, ma sempre con molta parsimonia.

Nelle grandi cucine stavano allineati alle pareti sacchi di frumento, di farina gialla, di segale. Il pane quotidiano era quindi assicurato: belle forme rotonde, di grandi proporzioni, da affettare. Andava di moda “al pumiaa”, una zuppa di verdure e pane di segale finemente affettato. Ad ognuno la sua scodellona per riempire lo stomaco.

Per condimento si usava il lardo del proprio maiale o il burro della propria mucca. Cibo d’obbligo era la polenta cucinata con molte varianti, bella soda, o polentina molle, “la pult”, dove si nascondeva un po' di burro di propria produzione.

La “pulenta rustìda” era fritta con le cipolle; “la pulenta barbutàda” era cucinata con gli avanzi della sera prima, affettati nel latte e con aggiunta di zucchero. La polenta serviva anche per essere insaporita da una toccatina al “sarac” (aringa).

Buona, se accompagnata da un abbondante intingolo dove era stato cotto un salamino del proprio maiale che poteva servire ad un’intera famiglia. E il pane? Il cosiddetto “pane bianco” è apparso, sia pure contingentato, sulle tavole coloniche brugheresi negli anni 1917-1918 quando era sindaco Giovanni Santini. Il pane sino allora usato, sempre con una certa parsimonia, era “il pane giallo” preparato con farina di granoturco e segale. La “mica” (forma particolare di pane bianco simile a quello emiliano) era riservata, per soli pochi giorni, all’alimentazione delle partorienti e delle gestanti. Era una gran festa quando si uccideva il maiale; allora si preparava “la casoeula” con le buone costine ben condite e le verze abbondanti in quella stagione. Il maiale offriva una riserva per tutto l’anno. I bei salami, appesi al soffitto a maturare, erano riservati per le grandi occasioni.

Di propria produzione, non mancavano mai i formaggini preparati con il latte cagliato, conservati nella “muschiroeula” per difenderli dall’assalto delle mosche nella calda stagione.

Il pollaio forniva uova quotidiane, il più delle volte uno serviva per due persone. Bisogna tenere presente che i contadini contavano sull’introito che le uova fornivano. Riguardo ai polli, ben di rado venivano cucinati. Occasione propizia poteva essere una malattia o una maternità.

In giorno di festa si cucinava il risotto con lo zafferano, ma non tutti potevano permettersi questo lusso. Capitava che i più fortunati dimenticassero qualche chicco di riso dorato sul risvolto della giacca per dimostrare che a loro stavolta era andata bene.

Anche l’olio era di propria produzione, ottenuto da semi di ravizzone, una pianta da foraggio dai fiori vistosamente gialli, di bell’effetto nel verde della campagna.

Quello che non mancava mai in tavola era il vino della propria vigna. Era quello a dare vigore , anche se poteva causare la sbornia.

E i dolci? Naturalmente erano preparati in casa. La “carsensa” era fatta di farina di segale con l’aggiunta di frutta: mele e uva secca. La “brusàda” invece era preparata con farina gialla e fichi.

Un dolce a buon prezzo era la neve da raccogliere nella scodella e da condire con vino o zucchero. D’autunno si gustavano le castagne, in compagnia, con un buon bicchiere di vino.

El gamba de legn

Questa breve rassegna di scorci di vita brugherese abbastanza recente sarebbe incompleta se non si ricordassero le fatiche e le glorie del gamba de legn, il tram a vapore, che dal 1880 al 1929 sostenne onorevolmente il compito dei pubblici trasporti nella sfera dei paesi gravitanti sulla Milano-Imbersago e sulla Brugherio-Monza.

All’alba giungevano a Milano, sbuffanti, le macchine possenti del gamba de legn, seguite da un gran numero di sferraglianti e squinternate carrozze stipate da lavoratori.

Allo scendere delle prime ombre lo stesso rumoroso ed ansimante convoglio risaliva lentamente la via a ritroso scaricando gradualmente il suo stanco carico umano.

Era il benefico gamba de legn che tutti deprecavano e tutti amavano poiché non respingeva mai nessuno … anche i lucc (lestofanti) che a Milano si infilavano tra i viaggiatori per alleggerire le tasche a qualcuno, balzando a terra a colpo compiuto col veicolo in piena corsa.

I venti chilometri che separavano Milano da Vimercate, venivano coperti, allorché tutto procedeva perfettamente, in circa due ore quando il tempo era bello. L’orario del tram era subordinato alle condizioni meteorologiche, e chi attendeva alle fermate era paziente come Giobbe. Sbuffava già lui, il mite e servizievole gamba de legn!

Nella stagione invernale, quando la neve aveva raggiunto pochi centimetri di spessore, il tram sovente non faceva servizio o se tentava eroicamente l’avventura del lungo e periglioso viaggio, i passeggeri che si affidavano alla loro buona stella, correvano il pericolo di arrivare a Milano, dopo essere partiti alle quattro del mattino, verso mezzogiorno.

Ai passeggeri stessi capitava anche di dare manforte ai tranvieri, con in testa il capotreno dalle serpentine argentee sul berretto, per spingere il convoglio nella speranza che questo riprendesse la corsa.

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